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IL MESTIERE DELLE ARMI Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 31 ottobre 2001
 
di Ermanno Olmi, con Hristo Jivkov; Sergio Grammatico; Dimitar Ratchkov; Dessy Tenekedjieva; Sandra Ceccarelli; Giancarlo Belelli (Italia, 2001)
 
Gli ultimi sei giorni della vita di Giovanni de Medici, in quel 1526 alla testa delle truppe di papa Clemente VII; quando si tentò di arrestare in Lombardia i lanzichenecchi di Carlo V che marciavano su Roma.

A settant'anni, ad otto dalla sua ultima regia (IL SEGRETO DEL BOSCO), Ermanno Olmi gira IL MESTIERE DELLE ARMI, in Bulgaria, una produzione importante, dotta e più che encomiabile: con tanto di fragore d'armi e lance drizzate da ricordare gli affreschi del grande Kurosawa, quando riandava (ma, certo, con altre esperienze alle spalle di quelle intimiste dell'autore de IL POSTO) al Paolo Uccello di KAGEMUSHA. Solo per un attimo di sorpresa: il tempo di abituarsi agli splendidi quadri creati dalla fotografia del figlio di Olmi, tra le nebbie mattutine della pianura e le rive controluce di quello che dovrebbe essere il Po. Perché subito, il profilo di qualche umile paesano, di un incuriosito ragazzino che sbircia fra i rovi ci ricorda di essere pur sempre dalle parti de L'ALBERO DEGLI ZOCCOLI.

Qui, però, d'altro dovrebbe trattarsi. Di quelle bocche da fuoco (in particolare cannoni: che seguiamo mentre vengono fusi con bell'artigianato) che a partire da quell'epoca, come ci spiega l'autore (ma a voce), renderanno la guerra per sempre diversa. Sempre più distante, astratta; più facilmente giustificabile nei confronti delle coscienze. Sempre più indifferente: rispetto ai tempi di quei corpo a corpo, che obbligavano la mano destinata ad uccidere a guardare negli occhi la vittima. Un tema bello, da meditare e da significare. Una riflessione sull'uso della forza e del potere che poteva riagguantare l'attualità. E che Olmi, disgraziatamente, riesce ad illustrare, ma non a spiegare. In una sceneggiatura priva di progressione e precisione (i belligeranti tutti eguali, su e giù per ponti levatoi nei chiaroscuri seducenti) non è soltanto la comprensione dell'accaduto che si perde subito per strada, in una confusa geografia di tenzoni fra i signorotti del luogo. Ma proprio lo scheletro di un discorso: che sappia elevarsi sopra la contingenza un po' decorativa delle corazze sbatacchiate.

Poi,il regista dedica tutto il finale ad una cronaca (raffinata, cosi minuziosa da apparire scientifica) dell'operazione chirurgica affrontata dal povero Giovanni delle Bande Nere; prima di subire una sorte segnata (ma non sarebbe comunque, visto il proprio ardore quasi sconsiderato, rimasto vittima di qualsiasi altro arnese guerriero?) dall'avvento infausto del cannone. Qui tutto appare più limpido, quasi analitico rispetto al sontuoso ed un po' vano andirivieni precedente; ma è un po' tardi.


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